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Malaysia-Thailandia: i campi dell'orrore dove venivano tenuti prigionieri i migranti

Ostaggi dei trafficanti di uomini che oltre a migliaia di dollari per il passaggio verso Kuala Lumpur ,vogliono anche un riscatto dalle famiglie

I campi dell'orrore al confine tra Thailandia e Malaysia ricordano i film sul Vietnam. L'odissea senza lieto fine di profughi del Myanmar e bengalesi però con la fiction non ha nulla a che vedere. Lo testimoniano le immagini impressionanti arrivate dalla Malaysia: fosse comuni dove sono stati buttati alla rinfusa i cadaveri dei migranti che non ce l'hanno fatta, le gabbie dove venivano tenuti prigionieri dai trafficanti di esseri umani che oltre a prendere i soldi per il viaggio, li tenevano in ostaggio per ottenere il riscatto dalle famiglie. 

Almeno 139 le tombe scoperte, decine i campi di prigionia abbandonati dove sono stati trovati resti umani

 Il macabro ritrovamento è il risultato di una ricerca durata due settimane nello stato settentrionale di Perlis, in un tratto di giungla a poche centinaia di metri dalla frontiera. "Sono scioccato. Non ci saremmo mai aspettati una crudeltà di questo tipo", ha ammesso il capo della polizia nazionale, Khalid Abu Bakar, aggiungendo che alcune di quelle fosse potrebbero contenere più corpi. Tutto fa pensare che quei resti appartengano a migranti musulmani Rohingya in fuga dalla Birmania, o a bengalesi che spesso si avventurano nello stesso viaggio per sfuggire alla miseria. Nei 28 campi identificati, alcuni capaci di ospitare fino a 300 persone, sono stati ritrovati utensili di cucina in ottimo stato e persino cibo non deteriorato: il che fa pensare a un abbandono recente, e probabilmente affrettato. I ritrovamenti confermano i sospetti che le organizzazioni per i diritti umani nutrivano da anni: quel tratto di giungla era al centro d'un fiorente business transnazionale sulla pelle dei migranti. Ai Rohingya veniva prospettata la possibilità di un lavoro in Malaysia, Paese a maggioranza musulmana e quindi gradito. Ma all'arrivo in Thailandia, dopo un estenuante viaggio su barconi sovraffollati, i migranti finivano prigionieri - o in schiavitù nel settore della pesca - finché le famiglie non pagavano un riscatto, in genere di 2mila dollari: una somma colossale per una popolazione alla fame. La Thailandia era da tempo accusata di complicità con i trafficanti, almeno al livello di funzionari locali. La Malaysia aveva finora chiuso un occhio di fronte all'immigrazione dei Rohingya, accogliendone fino a 50mila per la carenza di manovalanza a basso costo in patria. Ma il ritrovamento delle fosse comuni fa pensare che anche qui i trafficanti godessero di influenti appoggi sul territorio. L'emergenza umanitaria delle ultime settimane, con 3.500 migranti approdati in condizioni disperate sulle coste malesi, indonesiane e thailandesi, è anche il frutto dell'improvvisa stretta di Bangkok: minacciata di sanzioni americane ed europee, la giunta militare ha deciso di dire basta. Con i collegamenti interrotti, gli scafisti già in mare hanno abbandonato i migranti al loro destino. Solo dopo scene strazianti di barconi respinti, sotto le critiche della comunità internazionale, l'Indonesia e la Malaysia hanno accettato di accogliere i Rohingya per un anno. Ma le polemiche si allargano e oggi parole dure contro i propri immigrati sono venute anche dalla premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, che li ha definiti "mentalmente instabili perché fuggono dal Paese danneggiandone l'immagine". Quanto ai campi, nessuno conosce il numero di persone che vi sono transitate. L'Onu calcola però che negli ultimi tre anni, dopo i pogrom buddisti contro i Rohingya, almeno 120mila di questi ultimi abbiano lasciato la Birmania sognando un lavoro in Malaysia. Molti, si stima migliaia, sono affondati. E ora si sa anche che centinaia sono morti dopo orrende sofferenze, proprio al confine dell'agognata meta finale.

 

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