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18 settembre, 16:49 Mondo

Scozia, lotta all'ultimo voto per l'indipendenza

Nuovo 'nazionalismo sociale' dopo 4 secoli di cammino con Londra

"Fino a quando almeno 100 di noi saranno in vita, mai saranno sottoposti al governo degli inglesi": era l'anno 1320 quando 50 fra capiclan, notabili e vescovi indirizzarono una lettera al Papa perché fosse garante dell'indipendenza della Scozia, da poco difesa in guerra contro "l'inglese usurpatore", guidata da condottieri come William "Braveheart" Wallace e re Robert the Bruce. Ma in 700 anni di acqua sotto i ponti del Tweed, il fiume che segna il confine anglo-scozzese, ne è passata. E anche sul Tamigi. Caledonia e Albione da allora hanno trascorso insieme quattro secoli, unito forze e destini con reciproco vantaggio.

Le Corone di Scozia e Inghilterra sono insieme fin dal 1603, quando alla morte di Elisabetta I sul trono di Londra salì Giacomo I Stuart. Ciò che 300 anni prima i Plantageneti inglesi non erano riusciti a fare con la forza, lo fa pacificamente una dinastia scozzese: due corone unite ma con parlamenti, chiese e legislazioni distinti. E' un secolo dopo, nel 1707, che i destini dei due riottosi vicini si saldano. Rovinati da una fallimentare avventura coloniale nell'Istmo di Panama che drena quasi metà delle loro finanze, gli scozzesi accettano di unirsi all'Inghilterra: un Regno Unito, un solo Parlamento, un governo. L'Act of Union è di fatto un "bailout", un salvataggio finanziario: un'unione, scrive allora il poeta scozzese Robert Burns, "comprata con oro inglese".

Ma da allora i due Paesi condividono onori e oneri: fianco a fianco truppe inglesi e reggimenti Highlander battono Napoleone, soggiogano colonie, vincono due Guerre Mondiali. E la Scozia fornisce un terzo dei governatori e funzionari del più grande Impero dell'età moderna. Poi, finita la guerra, la Gran Bretagna si risveglia potenza di secondo piano: umiliata a Suez, costretta a rinunciare alle colonie e a seppellire il mito della "Britannia Felix".

E nelle crepe della ricostruzione postbellica il nazionalismo scozzese fa di nuovo capolino. L'Irlanda nel frattempo ha conquistato l'indipendenza e a nord del Vallo d'Adriano è nato nel 1934 lo Scottish National Party (Snp). Il declino industriale crea masse di lavoratori impoveriti e l'orgoglio celtico si miscela a un liquido più corrosivo: il nazionalismo sociale. Nel 1955 metà dei voti conservatori veniva dalla Scozia mentre nel 1970 il tory Ted Heath vince le elezioni ma con un solo deputato scozzese. La Scozia va a sinistra e diventa il più solido bacino di voti Labour.

Fa il resto il ventennio thatcheriano. Perso da poco, per mancato quorum, un primo referendum sulla devolution, con l'avvento di Thatcher i rapporti si esasperano: la forzata deindustrializzazione (che accomuna Scozia, Galles e nord dell'Inghilterra), il sospetto che i Tory usino la Scozia come laboratorio di misure impopolari come la "poll tax", la fine d'un vero servizio sanitario nazionale, danno agli scozzesi la sensazione di essere cittadini di serie B. Il nazionalismo Snp si tinge di venature socialiste e cresce mentre, dalla fine degli anni '60, alla miscela s'è mischiato un terzo liquido: il greggio del Mare del Nord, che si trova quasi tutto in Scozia. E la devolution concessa nuovamente - chiuso il ventennio Thatcher-Major - da Tony Blair nel 1999 stavolta è approvata da oltre il 74% degli scozzesi nel secondo referendum, con un quorum del 60%: dopo 292 anni rinasce il parlamento ed Edimburgo riacquista controllo dei budget.

Ma se il New Labour pensava di aver così disinnescato la "questione scozzese", sulle ali della devoluzione il nazionalismo prende il volo un po' alla volta con Alex Salmond - dal 1990 alla guida dell'Snp e dal 2007 First Minister of Scotland - con una triplice istanza: perché subire governi come quello di Cameron quando su 59 parlamentari scozzesi ai Comuni 41 sono laburisti e uno solo tory? Perché non decidere da soli come spendere? E perché non gestire le proprie politiche sociali quando i conservatori sono il nemico e i laburisti sono impotenti a difendere i lavoratori scozzesi? "Più democratici, più ricchi e più equi" è lo slogan che pervade la campagna di "Yes Scotland", un condensato di aspirazioni socialdemocratiche col modello del ricco welfare per tutti dei Paesi scandinavi, con industrie di nicchia e "fiumi" di petrolio per finanziare il tutto, come la Norvegia.

Lo scaltro Salmond ha forgiato e cavalca un ottimismo ignoto al rassegnato elettorato scozzese, abbracciando gli elettori laburisti e strizzando l'occhio a imprenditori e finanza locali. E che sembra crescere di fronte agli spettri evocati dai partiti tradizionali, uniti nel cartello unionista "Better Together". Se anche Salmond non ottenesse la secessione, avrà ottenuto comunque la devoluzione ampliata (Devo Max) promessa all'ultimo minuto dai politici londinesi. Coglierà i frutti d'una campagna capillare, di base, porta a porta, che ha creato un dibattito acceso e socialmente trasversale: base d'una futura nazione che ora al risentimento e al piagnisteo preferisce la voglia di assumere la responsabilità del proprio destino. Un fiducia in se stessi che gli scozzesi non conoscevano dai tempi di Braveheart.

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